Critica
Testo Critico di. Luigi Serravalli.
La pittura di Dalla Guarda è come esplosiva. Sembra che, in realtà, non abbia il modo di padroneggiare, dominare la materia. I colori fluiscono, si accampano sulla tela con una violenza indomabile. Le figure dipinte, cancellate, ridipinte, si mescolano, urlano, sfiondano in dimensioni inconsuete, legate da connubi mostruosi. I colori sono usati con grande generosità, i segni si infittiscono nella furia gestuale o gestualità furiosa; l’espressionismo astratto (i supporti figurativi qui contano assai poco) sembra provocato dalla furia di una esplosione; dalla piena di un fiume che abbia travolto ogni argine; da uno scontro di carattere galattico.

E’ chiaro che Dalla Guarda, di un tranquillo paese del vicentino vicino a Malo amato ed odiato da Meneghello, risente dello stesso complesso dello scrittore.
Come dice assai bene Licisco Magagnato, Dalla Guarda osserva le eruzioni vulcaniche del suo habitat con furore ma anche con malizia; gusto per la bugia o falsa informazione, gioco, astuta vendetta, simpatia, bisogno d’affetto, sprizzare di forze magnetiche che si disfano delle leggi della fisica per conferire alle coordinate usuali una estrema scorrettezza e la malignità del cachinno, dell’invettiva. Convulsione del riso o l’improbabile leggerezza di un buffetto sulla guancia, lo scherzoso sermoneggiare dell’ironia veneta, lo spirito di una trovata dialettale, di un arabesco popolare, di una espressione tipo Ruzzante o di una osservazione cauta, ferocemente ossessiva, come una pelle slabbrata di Bacon o una testa smorfiante di De Kooning, Appel o Dubuffet.

Sarebbe troppo facile passare ad una interpretazione Freudiana, psicologistica, ma il recente congresso di Philadelphia, studiando il cervello come computer, ha ridotto tutto il Museo Psicanalitico ad una arcaica affabulazione.
Dalla Guarda, certo, porta in sé, come tutti, ben nascosto dentro, il suo groviglio di vipere e questo viene fuori sulle grandi tele dove i diavoli ululano come cani, i cani si accoppiano alle galline, i segni percorrono freneticamente lo spazio per quella nevrosi che – invece – è tutta interiore. Ma questo aggancio e queste riflessioni possiamo farle per tutti i pittori dell’area dell’espressionismo astratto ai Cobra, o anche, all’espressionismo, tout court, da Münch in poi.
Ciò che conta, invece, in circa quindici anni di lavoro di questo pittore così assetato di colori e di forme, è lo stile raggiunto; la personalità che egli riesce ad imprimere al suo osceno pittorico (diamo qui all’aggettivo “osceno” un senso moderato solo come “offesa al buon gusto”, dove, al contrario “buon gusto” prende il senso di osceno nella accezione più dura del vocabolo) alla sua liberazione, inquisita ed imprigionata nelle tele, oggettivando l’io interiore in questi drammi dipinti che abbiamo visto nella bella Mostra di Malcesine o nel suo studio vicentino.
Dalla Guarda, in questo senso, risulta artista popolare, immediato. L’osservatore si sente ben presto trascinato, si riconosce nel fervore della denuncia o della demenziale autodistruzione. Dalla Guarda, sa tutto dell’enorme bilancio in rosso, presentato dall’epoca attuale: quindi i fruitori che, dentro di sé, avvertono lo stesso rigurgito, lo stesso disgusto e – soprattutto – la stessa impotenza, lo conoscono fratello nel dolore e nella sconfitta, qualunque sia la loro condizione.
Dalla Guarda, infatti, si fa apprezzare ed amare, perché il suo dissidio (nel senso di Ljotard) non è narcisistico, ma comprende la storia, magari un po’ anarchica, di tutti noi, giorno per giorno, da angheria ad angheria, da sopruso a sopruso. Una pittura, insomma fortemente rock, dove qui i colori, urlano il loro scontento come là sono le note, i costumi, gli atteggiamenti dei giovani cantanti che, unici, riescono a riempire gli stadi per una protesta tanto sonora, chiassosa, fragorosa, quanto inutile.
Il grido di Münch, forse, sull’onda dei resti dell’idealismo, si illudeva ancora di centrare il bersaglio, mentre l’urlo rockettaro è di tutti e di nessuno. Un urlo senza eco. Allora la realtà diventa solo un discorso di futuro e la demolizione si impone come fondamento al domani.

(Rovereto –TN-, 1986, Galleria Loreto)
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