La pittura di
Dalla Guarda è come esplosiva. Sembra che, in realtà, non
abbia il modo di padroneggiare, dominare la materia. I colori fluiscono,
si accampano sulla tela con una violenza indomabile. Le figure dipinte,
cancellate, ridipinte, si mescolano, urlano, sfiondano in dimensioni inconsuete,
legate da connubi mostruosi. I colori sono usati con grande generosità,
i segni si infittiscono nella furia gestuale o gestualità furiosa;
l’espressionismo astratto (i supporti figurativi qui contano assai
poco) sembra provocato dalla furia di una esplosione; dalla piena di un
fiume che abbia travolto ogni argine; da uno scontro di carattere galattico.
E’ chiaro che Dalla Guarda, di un tranquillo paese del vicentino vicino
a Malo amato ed odiato da Meneghello, risente dello stesso complesso dello
scrittore.
Come dice assai bene Licisco Magagnato, Dalla Guarda osserva le eruzioni
vulcaniche del suo habitat con furore ma anche con malizia; gusto per la
bugia o falsa informazione, gioco, astuta vendetta, simpatia, bisogno d’affetto,
sprizzare di forze magnetiche che si disfano delle leggi della fisica per
conferire alle coordinate usuali una estrema scorrettezza e la malignità
del cachinno, dell’invettiva. Convulsione del riso o l’improbabile
leggerezza di un buffetto sulla guancia, lo scherzoso sermoneggiare dell’ironia
veneta, lo spirito di una trovata dialettale, di un arabesco popolare, di
una espressione tipo Ruzzante o di una osservazione cauta, ferocemente ossessiva,
come una pelle slabbrata di Bacon o una testa smorfiante di De Kooning,
Appel o Dubuffet.
Sarebbe troppo facile passare ad una interpretazione Freudiana, psicologistica,
ma il recente congresso di Philadelphia, studiando il cervello come computer,
ha ridotto tutto il Museo Psicanalitico ad una arcaica affabulazione.
Dalla Guarda, certo, porta in sé, come tutti, ben nascosto dentro,
il suo groviglio di vipere e questo viene fuori sulle grandi tele dove i
diavoli ululano come cani, i cani si accoppiano alle galline, i segni percorrono
freneticamente lo spazio per quella nevrosi che – invece – è
tutta interiore. Ma questo aggancio e queste riflessioni possiamo farle
per tutti i pittori dell’area dell’espressionismo astratto ai
Cobra, o anche, all’espressionismo, tout court, da Münch in poi.
Ciò che conta, invece, in circa quindici anni di lavoro di questo
pittore così assetato di colori e di forme, è lo stile raggiunto;
la personalità che egli riesce ad imprimere al suo osceno pittorico
(diamo qui all’aggettivo “osceno” un senso moderato solo
come “offesa al buon gusto”, dove, al contrario “buon
gusto” prende il senso di osceno nella accezione più dura del
vocabolo) alla sua liberazione, inquisita ed imprigionata nelle tele, oggettivando
l’io interiore in questi drammi dipinti che abbiamo visto nella bella
Mostra di Malcesine o nel suo studio vicentino.
Dalla Guarda, in questo senso, risulta artista popolare, immediato. L’osservatore
si sente ben presto trascinato, si riconosce nel fervore della denuncia
o della demenziale autodistruzione. Dalla Guarda, sa tutto dell’enorme
bilancio in rosso, presentato dall’epoca attuale: quindi i fruitori
che, dentro di sé, avvertono lo stesso rigurgito, lo stesso disgusto
e – soprattutto – la stessa impotenza, lo conoscono fratello
nel dolore e nella sconfitta, qualunque sia la loro condizione.
Dalla Guarda, infatti, si fa apprezzare ed amare, perché il suo dissidio
(nel senso di Ljotard) non è narcisistico, ma comprende la storia,
magari un po’ anarchica, di tutti noi, giorno per giorno, da angheria
ad angheria, da sopruso a sopruso. Una pittura, insomma fortemente rock,
dove qui i colori, urlano il loro scontento come là sono le note,
i costumi, gli atteggiamenti dei giovani cantanti che, unici, riescono a
riempire gli stadi per una protesta tanto sonora, chiassosa, fragorosa,
quanto inutile.
Il grido di Münch, forse, sull’onda dei resti dell’idealismo,
si illudeva ancora di centrare il bersaglio, mentre l’urlo rockettaro
è di tutti e di nessuno. Un urlo senza eco. Allora la realtà
diventa solo un discorso di futuro e la demolizione si impone come fondamento
al domani.
(Rovereto –TN-, 1986, Galleria Loreto) |