Nel febbraio
dell’anno scorso, intervistando Girolamo Dalla Guarda in occasione
della sua mostra alla chiesa di S. Giacomo a Vicenza, mi ero resa conto
di fondamentali cambiamenti che erano avvenuti nel suo modo di lavorare,
da quando l’avevo conosciuto, nel 1970.
Avevo incontrato la pittura di Girolamo quando, agli esordi della sua carriera,
nei primi anni Settanta, appunto, lui dipingeva forme coloratissime, spesso
astratte, sempre, comunque, caratterizzate da un espressionismo violento
che metteva in luce senza mezze misure un carattere d’artista impetuoso,
un “fuori strada” come ebbe a definirlo Enrico Mascelloni. Fuori
strada, immagino, non solo perché del tutto al di fuori di ogni convenzione
dell’operare artistico ma anche e soprattutto, perché attrezzato
a compiere da solo cammini isolati e impervi e disposto ad avanzare tra
le intuizioni della sua arte senza badare per nulla al mondo della critica
e del mercato che inesorabilmente gira attorno all’arte e che spesso
si nutre di artisti come Leviatano affamato a senza cuore.
Nei lavori di quegli anni di Girolamo si intuiva un’esigenza insopprimibile
di dire di tradurre, in cromie dilatate e spesso esasperate, un’urgenza
vitale prorompente.
Era un momento di grande entusiasmo per la pittura, un momento in cui la
sua ricerca lo porta assai spesso alla disgregazione completa della forma
sacrificata sull’altare di un panteismo coloristico di grande espansione.
Parallelamente, però, Girolamo andava elaborando anche quadri dove
le figure umane e animali si riappropriavano delle loro sembianze, magari
ingigantite e deformate, collocate in uno spazio indefinito e senza misure,
in un mondo spesso blu, dove l’atemporalità del sogno poteva
far sembrare le immagini fantastici personaggi onirici schizzati fuori chissà
da dove per prodursi in conversazioni, concerti o amplessi del tutto surreali.
Alla figurazione, infatti, Girolamo non ha mai rinunciato e forse non rinuncerà
mai così che anche in situazioni senza situazione, i personaggi che
popolano i suoi dipinti, per quanto folli, disgregati e fuori dal mondo
concreto, non perdono mai del tutto un loro carattere di prepotente terragnità,
di forza realistica e sanguigna, per quanto deformi e difformi.
Pare, difatti, che essi approfittino dell’occasione offerta dalle
mani del pittore per uscire nel mondo reale, come dei geni dalla lampada
di Aladino, e, anzi, si capisce bene che, dopo aver liberamente scorazzato
per i boschi, aver giocato con gatti e galline, aver contemplato se stessi
e gli altri attraverso giochi di specchi o al di là della luna, per
loro di ritornare dentro la lampada non se ne parla proprio.
Un’altra rassegna delle sue opere presentata al Museo Casabianca di
Malo, tra il dicembre del 1995 e il gennaio del 1996, curata da Enrico Mascelloni,
e che comprendeva lavori dal 1970 al 1995, evidenziava in modo ancor più
significativo il percorso dell’artista: il frequente sopravvento preso
dalla linea, l’ispessimento insistente del colore, i bruni e i neri
sempre più assidui e determinati essere protagonisti nella costruzione
delle figure.
Certo, anche in quel gruppo di dipinti non mancava qualche scherzo ricco
di colore, qualche ironico groviglio di amanti persi nel loro sognarsi a
vicenda, qualche acquerello leggero, appena percorso da linee rarefatte.
Una successiva lettura del suo itinerario creativo Dalla Guarda la offrì
nell’antologica del ’98, quella che citavo in apertura, allestita
nei suggestivi spazi della barocca chiesa di S. Giacomo a Vicenza, dove
si trovavano esposte, accanto a quelle degli anni Ottanta, anche opere più
recenti e recentissime. In esse come ebbi modo di osservare allora, le figure
di Girolamo erano ancora più stravolte e deformate in un espressionismo
spinto, quasi baconiano. Quei volti sembravano non conservare più
neanche il ricordo del proprio nome, tanto erano straniti. Si aveva l’impressione
che solo il loro autore fosse in grado di riconoscere le loro storie e le
loro esistenze e che il fatto che queste potessero essere raccontate dipendeva
esclusivamente da lui, re e poeta di carte segnate con fondi di caffè,
tinte della porpora del vino.
Infatti una costante che, invece si manterrà sempre, nell’operare
di Dalla Guarda, è l’uso di certi materiali, scelti tra i più
semplici e poveri possibile: carta, per esempio, di gran lunga preferita
alla tela; non di rado anche carta di recupero. E poi, per colore, qualsiasi
sostanza che tinge e che si trova a portata di mano. Un carboncino di legno
raccolto dal caminetto, un fondo denso di thè, una matita, una ditata
di vino rosso.
Naturalmente vengono utilizzati anche pastelli ad acqua, stesi a secco e
ripassati con le dita bagnate. I pennelli, infatti, sono stati presto abbandonati,
quasi l’esigenza espressiva dell’artista sia quella di accorciare,
nel tempo e nello spazio, le distanze tra il suo corpo, le sue mani, e la
superficie da dipingere, in un desiderio di contatto diretto tra il mondo
da rappresentare, dentro di sé, e quello esterno, fuori di sé,
dove le idee prendono vita anche agli occhi degli altri.
L’uso dell’acquerello è, anche questo, un segno di distacco
dalla materia più ruvidamente concreta, una volontà di mischiare
con l’acqua, gli umori della mente. Questi colori vengono così
ardentemente bevuti dalla carta ed in essa si fissano con immediata determinatezza,
pur mantenendo contorni indeterminati e vaghi. Essi divengono così
forma incancellabile e la loro sostanza si fonde indissolubilmente con l’impasto
della cellulosa del foglio.
Questa mostra di Orgiano, costituita da una serie di recentissime opere
a pastello su carta, è un ulteriore segno di passaggio e, nello stesso
tempo, un anello di continuità con il passato. Qui le figure, quasi
tutte umane, con qualche piccola presenza sporadica di un cagnolino, Babette,
di un paio di gatti, qualche fiore secco e qualche altro fresco, sono racchiuse
in uno spazio così breve da sembrare talora insufficiente a contenerle,
figure sintetizzate anch’esse in pochi tratti essenziali.
I colori usati sono spesso primari e non mischiati, giustapposti e contrapposti
in righe o in zone che aderiscono alla costruzione lineare del nero: essi
hanno una funzione complementare espressiva messa in risalto e accentuata
dalla ruvidezza del foglio.
La carta stessa gioca, in questi pastelli, un ruolo fondamentale: essa appare
ed emerge frequentemente dal fondo del suo chiaro non-colore, a dare un
contributo di luce alle immagini.
Quasi tutti questi pastelli, poi, nascono, ancora una volta, dall’acqua:
dal Mediterraneo luminoso che circonda le isole Egee e, in particolare,
Creta dove il pittore si è fermato in autunno a dipingere…
Guardando questi volti, nuovi e usati nello stesso tempo, mi viene da chiedere
in che cosa sono mutati, da quelli degli anni Settanta e Ottanta, al di
là della tecnica e dello stile?
Sono cambiati come sono cambiati i luoghi e gli abitanti dei luoghi incontrati
dal pittore nel corso degli anni, perché, come mi ha spiegato lo
stesso Girolamo, mentre chiacchierando facevamo le foto di questi suoi quadri,
“le figure e i visi sono mutevoli come i paesaggi e si leggono e si
dipingono come dei paesaggi”.
Giovanna Grossato, 14 novembre 1999 |