Del segno e sul
dubbio.
Dalla Guarda è artista che ha dalla sua un segno potente e persino
feroce. In alcuni casi si fa secco e elementare. In altri lo avvinghia su
se stesso costringendolo a lunghe ed articolate peripezie (La parabola dei
ciechi del 1984), sciogliendolo quindi da intenzionalità più
semplificate. In tal modo costruisce un groviglio barocco, carico però
della tesa configurazione del segno; finendo quindi per immetterlo in una
tradizione lunga e sontuosa: quella che muovendo da Tintoretto e giungendo
sino a Vedova contiene per lui, vicentino, i caratteri di una sorta di genius
loci. È questa, infatti, una tradizione che ha varcato con sufficienti
ambizioni ed indubbia freschezza le "Colonne d'Ercole" della modernità,
forte di qualcosa di simile ad una "rendita di posizione", cioè
della dimostrata capacità di saper far vibrare le immagini immettendovi
elementi di precarietà e di dubbio, così come già Tintoretto
aveva reso nervosa ed impacificata la serica sensualità di un “tizianismo”
già calcificatosi, prima della rivoluzionaria vecchiaia del maestro
stesso, in maniera. E’ ben noto quanto peserà, da Goya al primo
Cezanne sino ad alcuni “espressionismi” del nostro secolo, tale
accelerazione del segno e del gesto.
Lungi dal volere inscatolare in quattro righe un pezzo importante della
storia di cui sopra ha il semplice scopo di tratteggiare l’alveo dove
scorre il suo linguaggio, giacché l’arte, prima di ogni altra
cosa, prende le mosse dall’arte stessa. Ed il suo segno così
“invadente” ha certamente l’esemplarità di una
radice profonda e carica di succhi multipli.
Ed il colore, viene da chiedersi? Non sarà mica marginalizzare, nel
caso di Dalla Guarda, quanto appartiene alla pittura veneta, e poi all’espressionismo,
come sua sostanza persino naturale e centrale come nessun’altra?
Non sia mai detto!, giacché per quanto Dalla Guarda tenda spesso
a trasformare il segno in colore, in massa cromatica, in elemento che si
dilata sino ad invadere la superficie, il colore stesso ha una sua autonomia
che merita qualche precisazione. Ed in primo luogo va avvertita una sua
natura libera e scarsamente programmatica anche rispetto alla tesa centralità
del segno. Nel senso che il colore da un lato sembra pedinare quest'ultimo,
facendosi tenero e diafano dove questi si scioglie e contorna le figure
in maniera più tenue (Alexa nel giardino, dei cavalli di pietra del
'91, ricamo cromatico di grande calligrafia, che da Chagall a Pascin par
ripercorrere alcuni nodi linguistici del secolo), oppure si staglia brutale
quando il segno marca con decisione il campo pittorico; dall'altro sembra
contraddire l'impulsività del segno, laddove il colore tende a sparire,
a farsi da parte, per lasciare libero campo alla volitiva immanenza di questo,
oppure cerca le tonalità più cremose o le velature più
liquide, come per indispettire il virtuosismo più plateale del segno
stesso.
Se è quindi lecito definire "espressionista" la poetica
di Girolamo Dalla Guarda, è bene tralasciare, però, subito
dopo, tale termine-contenitore ormai super frequentato, giacché l'arte
sua si radica certamente nella linea che abbiamo sopra sommariamente tratteggiato,
ma lo fa senza programmare il proprio linguaggio, senza cioè una
particolare elaborazione teorica, che egli sembra ritenere superflua e persino
suscettibile di distogliere lo sguardo dall’auto-significazione del
gesto pittorico. Pertanto nel contesto delle trans-avanguardie e dei neo-espressionismi
montanti degli anni ’80, a cui l’iter di Dalla Guarda è
in qualche modo parallelo, egli può tranquillamente essere definito
un “fuori strada”.
E lungi dal celebrare in tale epiteto l'ultima epopea dell' "ingenuo",
del pittore tutto istinto ed ossessione, si vuol piuttosto qui evidenziare
un percorso solitario - come peraltro quello di altri artisti contemporanei
-, un sentiero isolato ma non residuale, un libero percorrere le fitte trame
dell'arte che sembra disinteressato ad ogni logica omologante o programmatica.
Credo peraltro che ben sappia, Dalla Guarda, quanto i sentieri solitari
riserbino il piacere e la sorpresa di incontri straordinari, seppur rari.
Quella sua ironia già colta da Magagnato sarà un efficace
compagno di strada. Potrà essere la bussola decisiva per non perdersi
tra le inutili decoratività di questo nostro curioso presente.
Spoleto, luglio 1995 |