Paesaggi.
Sopraffatti in questo secolo dall'identificare nell'arte quegli apparati
logico-simbolici che un tempo ne erano corredo, di fronte a un quadro, a
un dipinto, a un rapido schizzo a matita o a carboncino sulla scabrosa superficie
di una carta industriale siamo portati a risalire alle intenzioni dell'autore,
quasi che conoscendo la fonte di un fiume se ne possa dedurre il percorso.
La stessa emotività dell'opera, il suo ritmo cardiaco il suo cotè
poetico superficiale, viene sistematicamente adombrato come un valore aggiunto.
Qualcosa in più che se non disturba troppo, può anche essere
accettato.
E dico questo perché l'incontro cori Girolamo Dalla Guarda mi ha
consentito di riaccostarmi ad un modo di fare arte istintivo, ma consapevole,
ad una padronanza della tecnica, soprattutto nella rapidità e sapidità
del disegno, che è totale e sempre pronta a sperimentare materiali
diversi, mai supina alla tradizione. Girolamo conosce la vita e conosce
l'arte, ma ne ha fatto una cosa sola. Appartiene a quella genia di artisti
che non potrebbe fare altro. Perché in fondo disegnare e dipingere
per lui fanno parte del suo modo di guardarsi attorno e giudicare. E’
qui il suo pensiero. Non a caso spesso le sue opere conservano memoria del
nome della persona ritratta o del luogo in cui l'incontro é avvenuto,
sono a tutti gli effetti dei carnet de voyage. Ma bisogna fare attenzione
perché è sempre la presenza dell'artista a caratterizzare
l' avvenimento, è il suo esserci che fa accadere.
In questo l' emotività diventa l' ambiente, determina lo scarto tra
la realtà e la visione poetica, il capovolgimento del pittore che
aderendo alla realtà la trasforma in qualcosa di proprio che noi
conosciamo attraverso la forma della serratura che lui ha scelto. E' questa
in un certo senso la sua vittoria.
Eppure la totale libertà che Dalla Guarda si concede la riesce a
rendere qualcosa di non legata alla contingenza. I suoi ritratti talvolta
Intensi, scuri e talora accarezzati da delicati e felici cromatismi che
ricordano Lautrec o la loro ripresa decò, sono enigmi che Io sguardo
non riesce a risolvere. In effetti la persona rappresentata cori l'asciuttezza
del carboncino (spesso ottenuto in modo naturale con un tizzone di legno)
e ammorbidita dalle trame fluide dell'acquerello, resta sospesa in un sogno
meridiano in cui il buio e la luce si inseguono e si sovrastano. La sensibilità
dell' artista sta proprio nel trasformare la gente incontrata nei bar o
nella casualità della vita, in una galleria di paesaggi emozionali,
nel sottrarre alla quotidianità un volto qualunque per farlo diventare
un'opera d'arte. In fondo proprio avendo abbandonato definitivamente la
retorica dell'artista-demiurgo ci sentiamo in grado di riappropriarci dell'essenza
del fare arte. E se abbiamo consentito a chiamare arte qualsiasi cosa, perfino
i rifiuti della società opulente, che sia stata accettata da un museo
o una galleria, magari quel piccolo e diffuso nulla della gente comune comincia
a diventare nuovamente qualcosa di prezioso.
Erratica e semplice, la poesia dei paesaggi umani dell'artista vicentino
e una portrait gallery penetrante e anche fuori moda: questo la rende ancora
più interessante. Abituati se non assuefatti a mediare il nostro
rapporto con la realtà attraverso linguaggi e mezzi di comunicazione,
l'esperienza di un artista-viandante che si confronta ancora e sempre con
l'Altro, con il volto degli uomini e delle donne incontrati sulla strada
dell'esistenza, riconduce al fascino primario di chi parla con naturalezza
il linguaggio perduto della pittura.
Galleria L’Ariete di Bologna (giugno 1997)
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Segno poetico
All’interno delle ripartizioni che si tentano, alcune volte perfino
con successo, per classificare la pittura contemporanea si ricorre spesso
a degli artifici verbali o a surrogare termini presi in prestito dalla storia
dell’arte. Molte volte tutto questo non è necessario, molti
artisti vivono all’interno di un proprio isolamento che è bene
non violare, di lasciare al proprio mistero, alla propria autosufficienza.
Questo accade, e ogni critico d’arte lo sa, con quegli artisti che
vivono l’istinto della propria vocazione in totale assolutezza, che
non rispondono alle sollecitazioni del mercato o delle gallerie, che dipingono
o disegnano perché non saprebbero fare altro.
E’ chiaro che sto tracciando mentalmente il ritratto di Girolamo Dalla
Guarda che ormai conosco da qualche anno e che per me rappresenta un caso
a parte tra le mie diuturne frequentazioni artistiche. Girolamo è
artista prima ancora di prendere in mano un pennello o un pastello, è
artista perché in questa forma di espressione ha trovato se stesso
e con questa forma di espressione ha conosciuto gli altri: amori, passioni,
paesaggi psicologici, volti incontrati per una sera o per molti anni.
Confesso di essere affascinato da questo modo di essere, oltre che di fare.
Perché normalmente un critico frequenta artisti che cercano una conferma
della propria ricerca, un confronto con gli altri artisti, un inserimento
in qualche corrente tecnica o scuola. Per Girolamo è diverso. Possiamo
anche parlare di un segno espressionista nel suo lavoro, ma l’espressionismo
storico non c’entra niente c’entra un’urgenza piuttosto
di vedere sulla tela o sulla carta come poté avere il vecchio Tiziano
o il Tintoretto che riduceva una figura in una ampia e nervosa pennellata.
Per questo ho parlato di istinto e in Dalla Guarda colpiscono la semplicità
e la partecipazione emotiva di quanto rappresenta. Il gesto è sicuro,
il colore mai banale, stanco. Ma è il segno poetico che colpisce.
Quella capacità di racchiudere un sentimento, anche occasionale,
in un senso formale.
Essere artisti in questo modo annulla le differenze e sposta ogni problema
critico. Dalla Guarda non è un artista nuovo, ma è un artista
vero. E la sua verità sta proprio nell’assenza di mediazione,
di costruzione. Pur prendendo atto che il linguaggio pittorico possiede
una sua base di convenzionalità, altrimenti non avrebbe finalità
comunicative, c’è da dire che sempre ogni opera d’arte
crea dei confronti con quanto è stato fatto, si pronuncia sull’arte
stessa. Ma nel caso di una pittura istintiva, essenziale, emotivamente impegnata
quello che dovrebbe prevalere è il risultato performativo: cosa giunge
al pubblico di quanto l’artista ha voluto esprimere? Questo per Girolamo
Dalla Guarda è il risultato principale. Egli appartiene a quel gruppo
numeroso di artisti che ha sempre dipinto, che ha passato giorni a disegnare
su qualsiasi supporto capitasse. Non ha spettato la fine del concettuale
per riproporre la pittura (guarda caso “espressionista”), e
poco gli importa se la critica in questo momento (ma dov’era dieci
anni fa) parla di smaterializzazione dell’opera. Lui dipinge come
ha sempre fatto, prende appunti sul mondo, sulle persone che incontra.
Non a caso la sua ultima produzione si è concentrata sui volti, non
a caso la data scandisce le opere, accumula le scoperte e le emozioni. L’opera
di Dalla Guarda sta diventando un interminabile diario per immagini. Essendo
un poeta ha trovato che le parole più interessanti sono quelle che
non si dicono, che la gente comunica con sguardi, con gesti che si percepiscono
al buio o attraverso il ricordo. Questo mi sembra voglia dire. Il fatto
stesso che adoperi sempre di più la carta per “impressionare”
le sue poesie quotidiane, avvalora la metafora di uno sketch-book infinito,
aperto a mutevoli cambiamenti d’animo. Il libro è aperto, l’artista
collabora con il mondo per interrogarne i segreti.
Ho parlato di verità e per una volta tanto non me ne vergogno. Dire
che esistono tante verità quanti sono gli uomini, è diventato
falso e banale. Preferisco pensare guardando le opere di Girolamo Dalla
Guarda che forse la verità sta nel mettere a nudo il proprio cuore
come scrisse Baudelaire, che consiste nella semplicità di una vita
dedicata alla pittura oppure nell’arrendersi alla crudeltà
della poesia.
Chiesa di S. Giacomo, Vicenza (giugno 1998)
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