Dalla Guarda
espone alla Galleria Hotel Castello una serie di ritratti caratterizzati
da quella scrittura pittorica che è divenuta negli ultimi anni una
caratteristica specifica del suo linguaggio, particolarmente concentrato
sul segno colorato: filamenti policromi si dipanano sulla superficie del
dipinto, ciascuno con un suo ruolo specializzato nella costruzione di un
elemento visivo globale, collaborando tutti alla definizione formale della
figura. Una sorta di divisionismo in cui ogni linea determina, in virtù
della propria funzionalità con altri elementi affini, il valore olistico
dell’insieme e ne fornisce contestualmente anche il significato.
Questo affinamento particolare del valore semantico del segno costituisce
l’approfondimento tecnico dell’ultimo decennio di attività
di Dalla Guarda e aveva avuto origine, quasi casualmente, nei primi anni
Novanta durante il soggiorno inglese del pittore, con l’utilizzo dei
carboncini (veri e propri tizzoni spenti di legno scovati tra la cenere
del caminetto), strisciate di vino rosso, di tè, di coca-cola o di
quant’altro di colorato e utilizzabile al tratto si trovasse sui resti
di un pasto o di una serata trascorsa a bere e a chiacchierare attorno al
fuoco.
In realtà, malgrado il titolo, la mostra presenta oltre ai visi anche
una serie di situazioni altrettanto funzionali alla rappresentazione
della realtà.
Il valore del soggetto appare del tutto relativo: un bacio, una rissa, il
poltrire sulla soglia della casa o sul letto, ogni brandello casuale di
quotidianità è buono per esprimere, in una sorta di graffiante
rappresentazione tipicizzata, la vita dell’uomo moderno ostaggio del
proprio tempo, avviluppata in un reticolo di linee che ne imprigionano
l’essenza fondamentale, ne impediscono la capacità esistenziale
a procedere verso una destinazione precisa.
Al pari dei protagonisti dei dipinti di Munch, anche questi esseri silenziosi
di Dalla Guarda lanciano a labbra chiuse il loro grido, soli anche sulla
soglia di casa, soli mentre fanno l’amore o si pongono l’uno
di fronte all’altro con gli occhi serrati; soli nella reciprocità
senza legami di una realtà che dissipa valori e affetti.
Apparentemente inerti, colte in un fare irrilevante, le sue figure paiono
rappresentare anche la crisi del rapporto tra arte e società, già
annunciata dal pittore nelle opere degli anni Ottanta e Novanta, dopo le
prime focose esperienze dell’informale del decennio 1970. Ora però
l’esplosione tranquilla di quel disagio sembra pregno della consapevolezza
della perdita di centralità dell’uomo e dell’ingovernabile
significato del suo operare e del suo essere nel mondo. Così la ricerca
dell’artista è tutta concentrata sul linguaggio, terreno neutro
del sentire ma pieno dei significati moderni; la figuratività delle
sue opere di questi ultimissimi anni esprime la ricerca di un rapporto nuovo
tra l’artista, i materiali con cui lavora e il gesto creativo.
La continuità del contorno serve ad affermare e ribadire il fatto
che la figura e lo spazio sono entità separate e l’utilizzo
semplificato del materiale non riconduce solo formalmente ma anche storicamente
a quel “poverismo” che caratterizzò i linguaggi della
metà degli anni Sessanta e che denunciava e prefigurava la
decultura e la frantumazione della realtà (e dell’arte) che
è ora segno della contemporaneità.
“Nautilus Web Magazine", di Giovanna Grossato |