La rassegna presentata
il 12 giugno a Vicenza, che rimarrà aperta fino al 12 luglio nei
suggestivi spazi della chiesa di S. Giacomo, comprende le opere del pittore
vicentino a partire dagli anni Ottanta, fino alle più recenti creazioni
della fine degli anni Novanta. Il percorso in senso temporale di questo
itinerario permette, a chi lo conosce da più di trent’anni,
da quando cioè ha iniziato la sua carriera, di rendersi conto del
vistoso mutamento intervenuto nell’attività artistica di Girolamo
Dalla Guarda.
Dalle grandi e coloratissime tele dall’espressionismo violento e fantastico,
ai bruni silenziosi e smorzati dell’ultima produzione. Anche se in
alcune serie delle opere recenti talora il colore si riaccende per prendere,
nuovamente, il sopravvento, sono anche le misure ridotte dei dipinti di
questi ultimi anni che danno la sensazione del contenimento, di una espressività
che non vuole più espandersi nella dimensione fantastica e nella
traduzione mitica della realtà, quanto piuttosto narrare una realtà
attuale e vera, afferrata nella flagranza immediata del suo compiersi.
Figure senza volto abbandonate nella lettura, abbracci indistricabili di
amanti, volti intenti, come quello di "Alice" - ma più
spesso deformati da uno spinto espressionismo baconiano - a volte senza
un nome ma con una storia nel vissuto recente dell’artista, popolano
le carte dipinte degli ultimi anni, trascorsi quasi sempre all’estero,
nel quartiere londinese di Soho, a Parigi e soprattutto nelle Channel Islands,
affacciate sulla costa nord-ovest della Normandia.
L’incontro con questi luoghi e con i loro abitanti, hanno segnato
profondamente l’evoluzione della pittura di Girolamo Dalla Guarda,
sia nella tecnica sia nei contenuti. Il supporto su cui narrare le sue nuove
vicende è divenuto, con sempre maggior frequenza, la carta; sottile
e meno pregiata della tela, che facilmente si impregna dei pastelli ad acqua
stesi a secco e poi ripassati con le dita umide. Anche il gesso viene molto
utilizzato, assieme a ditate di fondi di caffè, di tè, di
vino, alle schegge di legno combusto raccolte direttamente dal fuoco spento,
che, strofinati a ditate, assumono molteplici tonalità di grigio
e di nero. I pennelli sono stati abbandonati, infatti, quasi l’esigenza
espressiva dell’artista fosse quella di accorciare le distanze tra
il suo corpo, le sue mani, e la superficie da dipingere, in un desiderio
di contatto diretto tra il dentro e il fuori di sé.
L’uso dell’acquerello è, anche questo, un segno del distacco
dalla materia più concreta e terragna, una volontà di mischiare,
con l’acqua, gli umori della mente che vengono immediatamente bevuti
dalla carta ed in essa si fissano con immediata determinatezza, pur mantenendo
i loro contorni vaghi: da un lato affrancati dalla necessità di essere
in una sola ed unica misura, dall’altro incancellabili, nella loro
sostanza, ed indissolubilmente fusi con l’intimo impasto della cellulosa
del foglio.
“Nautilus Web Magazine” - luglio 1998, di Giovanna Grossato |